- Chiusi a casa, regrediti psicologicamente nel grembo domestico, con una vaga sindrome da naufraghi che devono sapercela fare da soli, perchè non si sa mai, mobilitiamo energie spaventose verso il cibo. E, soprattutto, impastiamo ed inforniamo. Dai naufraghi del coronavirus arriveranno forse nel futuro migliaia di messaggi in bottiglia in forma di foto di pizze, pagnotte, filoni, focacce.
- È anche questa una rivelazione. Impastare è il gesto della creazione. Impastare acqua e farina è il gesto base della nutrizione umana, ad ogni latitudine, qualunque sia il tipo di farina. Riuscire a far lievitare è dare una spinta alla materia. Perciò questo gesto ci affascina, è un grado zero del nostro essere uomini civilizzati. E chi ha la fortuna di non usare tecnologie complici può vedere cosa accade quando la farina assorbe a poco a poco l'acqua, affronta una fase di disordine della materia, si raggruma, si appiccica, e poi la fusione si fa completa, la pasta diventa plasmabile, le mani ne sentono una consistenza nuova, c'è in lei un'indissolubilità che ci parla di noi. Della nostra farina di uomini che si imbeve dei liquidi della vita e si trasforma, può diventare pasta buona, se le dosi sono giuste. E ci parla di ciò che uniamo e disuniamo.
Così come il lievito ci parla della capacità di trasformare. Nell'impasto cresciuto c'è l'esuberanza della vita, nell'invisibilità del lievito che ci lavora dentro c'è l'anima che respira dentro la materia, genera cavità, passaggi, c'è il lavoro che dovremmo fare noi, in noi, e in quella materia plasmata che sono le nostre comunità.