Ovvero di come la cultura del mediterraneo si fondi su “memorie” che costruiscono identità nomadi, proiezione di sradicamenti e ricerche, piuttosto che affermazioni di “radici” e tradizioni.

“Non ho radici, ma piedi per camminare”
Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti


Radici. Negli ultimi decenni questa parola ha invaso il nostro lessico e il nostro immaginario, diventando la parola chiave di espressioni come “senza le radici non si può costruire il futuro”, “stiamo perdendo le nostre radici”, “bisogna conoscere le proprie radici”, e simili.

Un episodio significativo è stato, a questo proposito, il dibattito di alcuni anni fa durante la stesura della Costituzione Europea, quando a lungo, e in tutta Europa, si è svolto un dibattito sulle “radici” comuni dell’Europa, cui si faceva riferimento nel preambolo alla Costituzione. Parteciparono moltissime voci, e ognuna espresse importanti posizioni, ma mi interessa sottolineare come quell’occasione dimostrò l’incontrastato dominio della metafora delle “radici” per parlare dell’identità culturale, a proposito o a sproposito.

Si ascoltarono, nel parlamento italiano, espressioni come: “Non e` possibile rilanciare l’idea dell’Europa senza parlare di cultura, di una famiglia di Nazioni, di radici culturali, le radici cristiane (o, meglio, ebraico-cristiane), le radici greco-latine, da cui deriva questa famiglia di popoli, altrimenti non si capisce perche´ l’Europa e` quello che e`. Dobbiamo avere il coraggio di tornare a parlare di radici.” (Pronunciate da Rocco Buttiglione).

Intervenne il Pontefice di allora, Giovanni Paolo II, chiedendo che fosse introdotto nella Costituzione europea il richiamo esplicito alle radici religiose: “al consolidarsi delle comuni radici cristiane dell’Europa, radici che con la loro linfa hanno impregnato la storia e le istituzioni europee”.

Le radici, dunque, sono la metafora più diffusa oggi per indicare l'identità culturale e soggettiva, di comunità, nazioni, continenti, di ciascuno di noi. L’affermarsi di una metafora è un indizio culturale straordinario, per indagare l’evoluzione di un concetto, i connotati che assume in un determinato momento storico. E come per ogni metafora si può esplorare la complessità di significati che racchiude, per comprendere cosa evoca, quale e più ampio campo di sensi e soprattutto di sensazioni schiuda quando la usiamo, o riesca a generare a forza di essere usata.

Il termine radice, innanzitutto, richiama ad una staticità, o se vogliamo ad una idea di scarsa mobilità, ed è legato in modo fortissimo al campo semantico della terra. La radice, per esempio, è diversa dalla sorgente, pur avendo in comune con quest’ultima il preciso richiamo all’origine, allo scaturire. Ma la radice insieme al nascere evoca l’idea del permanere, dello svilupparsi in un luogo saldamente ancorati, creando una sorta di topografia identitaria che lega in modo indissolubile terra, territorio, radice e soggetto.

L’idea della nostra esistenza come risultato di un processo, di un flusso, di cui noi siamo la nuova propaggine, l'ultimo passo (per ora) non è certo nuova. È presente già nella Bibbia (la radice di Jesse), ma collegata alla storia di un popolo che più sradicato non si può. Un’altra delle sue declinazioni più celebri è quella grandiosa immagine della cattedrale di Chartres, dei nani sulle spalle dei giganti. Ma i nani, almeno, camminano, le piante, sradicate, muoiono.

Personalmente, andando alla ricerca delle mie radici, torno sempre alla cultura greca. E del resto, quando si è svolto quel lungo e contorto, più che complesso, dibattito sulle radici dell'Europa, volendo inserirlo nel preambolo alla costituzione europea, era unanime il riferimento alla cultura greca come fonte della cultura europea.        

Peraltro è troppo facile ricordare che il nome stesso di Europa è nato lì, in quel contesto, in quella mitologia, cioè nell'enorme giacimento immaginale generato dai greci antichi. Ma se ci tuffiamo nella sorgente originaria dell'Europa, troviamo più di una sorpresa. E che sorpresa.  Europa è una bellissima giovane, figlia del re Agenore, fenicia, forse una ninfa, di cui si innamora Zeus che, per potersi unire a lei, si trasforma in toro e portandola in groppa la conduce fino alle terre occidentali che noi oggi chiamiamo, appunto, Europa. In realtà la giovane diviene regina di Creta, ma questo ci racconta solo come dovremmo stare attenti a definire i confini dell’oriente e dell’occidente. Europa, è quel che importa al nostro ragionamento, è il simbolo dell’originario sradicamento. Ecco, se la vogliamo, la nostra origine, l’imprinting indiscutibile che segna il nostro continente e tutta la sua cultura, uno sradicamento che percorre oriente e occidente, senza posarsi, anzi generando altri passaggi, altri spostamenti. I fratelli di Europa, ad esempio, si spostano andando alla sua ricerca ed il più celebre di loro sarà quel Cadmo, fondatore di Tebe, alla cui discendenza si intrecceranno le storie di Dioniso, di Edipo, Antigone.

Europa e la sua storia ci dicono quello che è chiaro nella miriade di miti classici eziologici: il luogo è costituito dall'uomo, dal suo movimento, è l’uomo a dare identità al luogo e non viceversa.

Passiamo allora per il mito più profondo e persistente della cultura occidentale. Odisseo. Un uomo che torna, indubbiamente. Il percorso di Ulisse è circolare, tutta la sua vicenda si regge su un ancoraggio indissolubile alla sua terra madre, Itaca. Eppure la sua definizione, la prima definizione che Omero ne dà è di “uomo dai molti aspetti”, polytropos. L'Odissea è la ricapitolazione di tutto ciò che l’uomo dovrebbe essere. E la sua caratteristica è decisamente l'equilibrio tra andare e tornare, scoprire e sapere.

Kostantinos Kavafis l’ha saputo dire meglio di chiunque altro, ha espresso in maniera geniale e stupenda la forza di spinta e attrazione che percorre Ulisse

Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

Si potrebbe restare dentro l'Odissea per esplorare i mille volti dello sradicamento e la loro persistenza, l'eco che arriva fino ad oggi. Dalle Sirene a Calipso, Ulisse combatte molte volte contro la tentazione di un'ancora, contro la tentazione di mettere radici, così la sua esistenza di uomo si concentra nella perenne tensione tra andare, di nuovo, e restare.

La più antica tragedia che possiamo leggere per intera, I Persiani di Eschilo, contiene un passo, in cui appaiono due donne, Asia ed Europa. Entrambe sottomesse da Serse. Una delle due  si ribella. Ed Eschilo vuole descriverne le caratteristiche, di Asia ed Europa, e facendolo individua il tratto costitutivo della donna-Europa rispetto alla donna-Asia nella pretesa di indagare la natura, di conoscere la natura al di fuori di ogni tradizione. Tratto costitutivo, radice primordiale dell'Europa, è la volontà di uscire dalla casa, dalla casa della consuetudine, del pensiero, della fede, dal confine. Il dominio sulla natura, sull'oggetto, la vittoria nella sfida epistemologica (epistemè-stare sopra) si può conquistare uscendo dal consueto, iniziando un viaggio personale e confermando il proprio sapere, che deve apparire razionalmente fondato.

In quella stessa Atene di Eschilo si definisce, in particolare grazie alla straordinaria figura di Socrate, la figura e il ruolo del filosofo, colui che contraddice l’ethos basandosi sulla ragione, sulla sua ragione. Ethos ha la stessa radice, etimologica, di sedes, quindi il pensiero filosofico, il pensiero dell’uomo fondato non sull’autorità impersonale della tradizione ma su quella legittimata dalla ragione, è un atto di sradicamento, è uscita da una sedes. Sradicare per definizione, vivere sradicati. Questa è la caratteristica dell'occidente contro ogni altra cultura.

Fuga_di_Enea_da_Troia_Barocci La cultura latina ha confermato pienamente lo statuto nomade dell’individuo, fissando nello sradicato l’eroe fondatore della città e della civiltà romana, e ponendo nell’ibridamento di Oriente e Occidente la causa stessa della grandezza latina. Quando Virgilio, in piena età augustea, deve fissare l'identità latina, ricostruendola, come accade sempre, a posteriori, ri-costruendola, appunto, racconta la straordinaria storia dello sradicamento che porta Enea dall'Oriente a Roma, a fondersi con un popolo del tutto diverso. Lo sradicamento, il viaggio, la contaminazione e il conflitto sono dunque il DNA dei latini. E questa vicenda mi sembra ancora più affascinante di quella Odisseica, perchè è il frutto di un'intenzionalità culturale, viene dopo secoli di riflessione sui rapporti tra Roma e la Grecia, viene dopo che Roma è diventata una potenza imperialista, e poteva quindi costruire un'epopea da vincitori, non aveva bisogno di una mitologia della contaminazione.

Il filo che lega la genealogia culturale occidentale non può sfuggire dal nodo dantesco. Credo sia superfluo sottolineare il valore europeo della Divina Commedia, la sua qualità di matrice, nel senso proprio di stampo da cui si estraggono modelli e si riproducono immagini e simboli. Potrebbe sorprendere ancora una volta che nella Commedia, laddove potremmo trovare una monolitica visione della cultura teocentrica, imperniata sull'immaginario cattolico e cristiano, invece troviamo fusioni di ogni tipo, una cultura universale e molteplice. E invece non deve stupirci, da uno come Dante, che sradicato (sebbene pienissimo di desiderio della sua terra) lo era stato per l'esperienza drammatica dell'esilio. Dante, come Ulisse, vive Firenze come Itaca, l’Itaca di Kavafis, la meta cui vorrebbe approdare, ma anche il motore primo del suo viaggio, viaggio intellettuale, etico, storico, filosofico. Alla fine Dante non ha nemmeno più bisogno di tornare a Firenze, per essere fiorentino.

Il percorso che vorrei evocare porta ad una visione dell’identità, sia essa quella delle comunità, dei popoli, che quella degli individui, che si definisce prevalentemente attraverso lo slancio, il movimento costruttivo, di apertura, piuttosto che di chiusura, un movimento che tiene sempre conto del punto di partenza, che conosce il senso dell'eredità, ma sempre, essenzialmente, un movimento che non si avverte, non si sente e definisce, su un'asse verticale. Non è mai accaduto, insomma, nella nostra storia, che si cercasse di costruire pedigree di purezza, per poter definire i caratteri distintivi di un uomo o di un popolo, piuttosto si sono raccontate storie di contaminazione, partenze e arrivi, spostamenti. La topografia identitaria, per tornare all’espressione che ho usato in partenza, è stata, nella cultura occidentale, sempre una mappa ricca di percorsi, esplorazioni, incroci, scontri, a volte, ma non l’individuazione di una zona d’origine controllata. Tutta la storia occidentale è innervata da miti identitari fondati sul valore della scoperta, dell'esplorazione, della sfida, e non del radicamento.

Ci sono stati almeno due momenti di straordinaria rilevanza culturale che si sono appellati, in qualche modo alle radici. Il Rinascimento e il Romanticismo. Questi due grandi e, come si sa, molto sfaccettati movimenti culturali, avvertirono l'esigenza fortissima di un richiamo al passato. Gli uomini del Rinascimento e i romantici credevano che nel periodo classico e nel medioevo, rispettivamente, si potessero trovare i modelli più alti, forse inarrivabili, cui ispirarsi. Si tratta però di un riferimento a radici storiche, mai geografiche. Goethe non cerca le proprie radici culturali nella letteratura, nella mitologia, della sua nazione, viene in Italia. Un famoso dibattito si accese nei primi anni dell'Ottocento tra gli studiosi italiani sull'opportunità di coltivare modelli letterari che venissero da altre tradizioni. La radice come richiamo ad un'appartenenza topologicamente limitata è una caratteristica moderna, ed è una terribile tendenza regressiva. L’innalzamento dei confini nazionali, esperienza tutto sommato recente della nostra storia, e soprattutto l’affievolirsi di quella coscienza di appartenere ad un continuum storico che ha fatto sentire normalmente l’uomo erede di qualcosa e costruttore di un futuro, ha trasformato il ruolo dei fattori tempo e spazio nella determinazione di ciò che ciascuno pensa, crede, sente, di essere. È come se progressivamente sull’ideale carta d’identità che descrive ciascun uomo le determinazioni di classe sociale, di fede religiosa o politica, di appartenenza di genere, siano diventate meno importanti di quella primordiale determinazione data dal luogo di nascita, dal legame alla terra. Un processo che abbiamo chiamato in molti modi, nel secolo scorso, senza però aggredire abbastanza, anche da parte di chi l’ha combattuto, uno dei suoi tasselli fondamentali, proprio quel richiamo all’importanza delle radici, anzi l’espansione semantica del campo lessicale delle radici all’identità soggettiva, la sua equiparazione automatica ad una valorialità positiva.

Tempo e spazio si incrociano dunque nell'esperienza del soggetto contemporaneo, esprimendo sempre un bisogno fortissimo di radicare l'identità del soggetto ma contemporaneamente manifestando la difficoltà di sganciare la memoria soggettiva da quella storica, cioè di mettere nella prospettiva adeguata la breve memoria del soggetto dentro la più ampia memoria storica. Siamo al punto di rottura, a mio parere, alla ferita scoperta. L'uomo, gettato nel tempo (Heidegger) e quindi nella morte, deve costruire il proprio essere, e lo spazio della sua esistenza non sarà mai sufficiente, ma perdendo la possibilità di utilizzare la profondità di prospettiva storica non ha altra possibilità che tentare di aggrapparsi ad una profondità, tutta verticale (ma verso il basso) nella terra. 

Un romanzo di Dave Eggers e un libro di Daniel Mendelsohn, recentissimi, mi permettono di trovare prove a questa idea. Entrambe i libri ruotano attorno al tema della ricerca del padre.

“Sento di non avere mai davvero conosciuto mio padre finché non ho cominciato a leggere seriamente i classici”, dice Daniel Mendelsohn nel suo Un’Odissea, splendida storia di una crociera compiuta da un padre e un figlio ripercorrendo i luoghi del viaggio di Ulisse, dopo avere percorso insieme le orme di Ulisse leggendo e commentando i libri di Omero.       

La crescita patologica della metafora identitaria delle radici è figlia diretta della mancanza di padri. Quanto più non riusciamo a vivere con naturalezza il rapporto che storicamente ha determinato la nostra capacità di dirci, cioè di nominarci (dai patronimici degli eroi omerici in poi) tanto più si ingigantisce la necessità di ancorarci a una radice, appunto.

Se la cultura è stata, sempre, l'immagine di uno sradicamento, se è riuscita sempre a vivere il suo ruolo formativo educando agli sradicamenti, dicendo di loro, sublimandoli ed assumendoli quindi nella nostra esperienza di uomini, oggi questo non riesce perché nasciamo sradicati, soggettivamente sradicati. Il vincolo del sangue che rappresentava l'alfabeto naturale con cui scrivevamo il nostro nome, ha perso la sua leggibilità, in una iperculturizzazione dell'individuo, o se volete in una de-naturalizzazione. E ciascuno di noi si trova come un foglio bianco, come una materia informe.

Dave Eggers, in I vostri padri, dove sono? E i profeti, vivono forse per sempre?, racconta la storia di un uomo che prende in ostaggio una sequenza di persone da cui spera di ottenere risposte, un astronauta, un politico, un insegnante, infine  sua madre. E la domanda del titolo è dentro la disperazione del protagonista, dove sono i padri? Chi ha la responsabilità delle illusioni tradite, chi doveva disegnare le prospettive di una vita, chi doveva guidarci verso un mondo migliore, chi doveva insegnarci un lavoro?

Si è rotta la fune che collegava memoria e immaginazione, sulla quale ha camminato l'uomo per molto tempo. La vita dell'uomo è tutta in questo cammino di funambolo tra memoria e immaginazione. L'immaginazione che modella il futuro del soggetto vivente che costruisce l'orizzonte e ridisegna il confine giorno per giorno, ma che si fonda sulla memoria, e nel frattempo la determina, la memoria che è sempre anche memoria del futuro, del “sarà stato” e l'immaginazione che è sempre anche progetto del passato.

Memoria dell'uomo che è scritta in tutti i dispositivi culturali nei quali la sua esistenza è immersa, nelle storie, negli spazi costruiti e modellati, nelle  parole, nelle metafore, e infine riassunta nel suo corpo. L’affievolimento della forza della memoria del corpo è uno dei sintomi del malessere dell’uomo moderno. È, questo, uno dei nodi del nostro tempo. Il possesso del corpo, il suo ascolto come di cosa viva e costitutiva di ciascuno di noi in quanto soggetto. Sono sempre i poeti, gli artisti, i profeti che dicono il vero oltre il reale. Perciò si potrebbero leggere, tra i tanti, Pasolini, la sua attenzione al corpo, la sua lotta disperata per risacralizzarlo, oppure Kavafis, ancora lui, “si ridesta viva la memoria del corpo”.

Ma se esiste una memoria del corpo, in noi, esiste anche una memoria del corpo sociale, una memoria fisica delle comunità, sensibile e parlante nelle sue membra, fatta di luoghi, di dispositivi giuridici, sociali. Ne abbiamo coscienza, ne abbiamo ancora coscienza? O all'individuo è stata ormai sottratta la sensibilità della sua memoria comunitaria e oggi sovrappone costantemente la memoria individuale con la memoria storica, e quindi la nostalgia con il bisogno di radici.

Paternò, la mia città, è stata patria di una straordinaria categoria di artisti del Novecento, che ci offrono un esempio perfetto di cosa fosse un corpo sociale ancora vivo, in una visione culturale in cui conviveva il fortissimo attaccamento alla propria identità sociale e territoriale, esaltato perfino dall’utilizzo della lingua dialettale, con lo sguardo aperto a un mondo ampio, senza che il richiamo all’origine si dovesse tradurre in rivendicazione e soprattutto senza che debba dare luogo al bisogno di incontaminarsi, di tornare puri o preservarvisi.

cicciu_busacca I cantastorie nel '900 usavano la piazza per raccontare storie di emigranti, di rivolte sindacali, di sopraffazione sociale, agivano il corpo sociale, ci incidevano sopra, con il loro stare sulla piazza, la memoria che si rispecchiava negli occhi e nelle orecchie dei loro ascoltatori, e nel frattempo attingevano all'immaginazione di generazioni contadine che sognavano un futuro e un presente del tutto diverso, e lo cantavano, lo traducevano in parole e musica. Nessuno aveva nostalgia delle proprie radici, nessuno aveva bisogno di attingere alla memoria personale per descrivere il mondo e nessuno sentiva di sognare sogni solitari. 

La metafora delle radici, la sua diffusione pervasiva, hanno segnato dunque questo tempo in cui gli uomini hanno cercato nel confine una sicurezza, hanno desiderato muri per non smarrirsi dinanzi agli orizzonti troppo vasti da affrontare senza il sostegno di una cultura che desse senso e direzione al presente. Ma l’evidenza ci dice che non è questa la natura dell’uomo, che non ha radici, ma piedi per camminare. Le voci ancora oggi trionfanti che inneggiano alla chiusura dei confini, alla demarcazione delle differenze, riescono a suscitare la parvenza di una rassicurazione, semplificando il bisogno di conoscersi di ciascun uomo, riducendo la complessità di uno sguardo all’applicazione di un’etichetta, non riescono ad avere l’energia dei desideri, ma solo la violenza della rabbia, né la gioia della costruzione, ma solo l’angustia della costrizione, nemmeno la dolcezza della malinconia, ma solo  il vuoto della disperazione.

Quale paradigma può descrivere allora la contemporaneità nel rispetto della natura umana, riallacciando i fili della cultura europea e non solo, continuando la storia degli immemorabili sradicamenti? Quello del soggetto nomade. Un soggetto che non si fonda sul radicamento e l'unicità, che non si definisce dal rapporto con l’alterità escludente, ma si nutre delle trasposizioni, delle metamorfosi (sono entrambe parole chiave delle opere attualissime di Rosi Braidotti).

Il soggetto nomade è l’uomo di oggi, la cui individualità, a prescindere dal fatto che lui si muova o no dal luogo in cui nasce, si costruisce di riferimenti molteplici, ibridi nelle coordinate di spazio e tempo, ma perfino nella demarcazione di genere sessuale con le sue tradizionali attribuzioni antropologiche. Ma a questo soggetto nomade, che sulla mappa del pianeta disegna una rete fittissima di spostamenti, di uomini, di merci, di capitali, di simboli, mancano ancora le parole per dirsi. Mancano parole nuove che declinino in positivo il desiderio o il bisogno di muoversi, che stacchino dalla terra la sua esistenza per farla scorrere più liberamente, che colorino di completezza e bellezza la molteplicità interiore. Poiché sono le parole la vera patria dell’uomo, la casa dell’essere, sarà il dominio di parole nuove lo strumento con cui ovunque, ciascun uomo, potrà alzare la tenda per sentirsi a casa, nomade e compiuto, piuttosto che migrante e in transito.

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