Nelle settimane scorse vi è stato un certo dibattito sul tema delle cosiddette "gabbie salariali", cioè sull'opportunità di calibrare gli stipendi sull'effettivo costo della vita, quindi ridurre gli stipendi al sud, dove per alcune voci il costo della vità è più basso. Non è necessario sottolineare la stupidità e l'ingiustizia di questa proposta, ma vorrei fare notare come si tratti di un segnale culturale molto forte.

Di cosa? Affermare (o solo pensare) che la retribuzione di un lavoratore debba essere decisa in misura di quanto spende per vivere indica quale valore si assegna al lavoro e quale senso si dà all'attività lavorativa. In sintesi, si lavora per sopravvivere, non perchè quello che chiamiamo lavoro è il modo più concreto e importante in cui ciascuno di noi contribuisce alla vita sociale, assume il proprio ruolo nella comunità in cui vive. Ecco il segnale: il lavoro ha perso il suo significato più nobile, è ridotto a peso, parentesi necessaria della vita, appunto, finalizzata alla sopravvivenza materiale. Altri, più forti e decisi di noi, si sono battuti perchè ogni lavoratore venisse retribuito in base alla fatica, all'impegno, al tempo, alle capacità che investe nella sua attività, e questa rappresenta una delle conquiste più importanti del secolo trascorso.

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